Storia di Khady Touré

Storia raccolta da Antonio Vigilante. Estate 2025.
Direi di cominciare dall'inizio: dalla tua infanzia. Quali sono i tuoi primi ricordi?
Quando penso alla mia infanzia, mi viene in mente l’acqua.
Non credo ai segni astrologici, ma trovo esilarante il fatto che il mio segno sia Pesci.
Da piccola ero una bambina che amava molto la libertà; in più, provavo una forte attrazione per l’acqua.
Sono nata in Senegal. Benché non mi ricordi molto del tempo trascorso laggiù, custodisco nella memoria un ricordo molto vivido.
Mi basta chiudere gli occhi per vedere la piccola me, dietro il cortile di mia nonna, intenta a guardare l'acqua di un rubinetto un po’ arrugginito scorrere verso una bacinella di plastica.
Mia madre mi ha confermato che amavo molto giocare con l’acqua e che questo faceva arrabbiare mia nonna, poiché sprecavo un bene prezioso.
Un altro ricordo è legato all’Italia: avrò avuto cinque anni. Era la prima volta che i miei genitori mi portavano in spiaggia.
Il mare si estendeva, in tutta la sua maestosità, verso l’infinito. Avevo provato un desiderio irrefrenabile di entrare nell’acqua, senza pensare.
Era una giornata di vento; un’onda violenta mi aveva travolta. Non sapevo nuotare.
La sensazione di annegare è ancora viva nella mia memoria.
L’acqua entrava nelle narici, bruciava i miei occhi, mi impediva di respirare, di vedere e perfino di capire cosa stesse accadendo in quel momento.
Le braccia e le gambe si muovevano in modo frenetico, come le ali di un piccolo uccello che tentava di spiccare il volo per la prima volta.
Dopo quell’episodio diventai più cauta. Avevo di fronte la mia prima lezione di vita:
mai sottovalutare il pericolo nascosto nelle cose tranquille – esse racchiudono in sé una forza selvaggia.
Sei dunque arrivata presto in Italia. Quanti anni avevi?
Quando mia madre mi ha partorito, mio padre era già in Italia.
Non ha potuto assistere alla festa musulmana in cui si dona il nome al bambino e gli si sussurra all’orecchio, per la prima volta: “Non esiste Dio all’infuori di Allah e il profeta Muhammad è il suo messaggero.”
Ho incontrato mio padre per la prima volta quando avevo tre anni e, in base a ciò che mi è stato raccontato, ero molto infastidita dal fatto che uno sconosciuto dormisse nel letto con me e mia madre.
È riuscito a farsi amare, comprandomi, ogni sera, del latte e dei biscotti.
Quello stesso anno ho preso il mio primo volo.
Tutto è accaduto in un giorno d’estate: mio padre era rientrato a casa e aveva comunicato il suo desiderio di trasferirsi all’estero.
Mia madre era rimasta perplessa, non riusciva a capire i motivi che animavano quella decisione.
Vivevano in una situazione molto agiata. Lei era parrucchiera e, per un periodo, aveva lavorato come insegnante in una scuola internazionale di estetica, mentre mio padre era un alto funzionario del governo.
Se non sbaglio, a quei tempi il presidente era Abdoulaye Wade.
Certe volte mi fermo a pensare.
Mi domando quanto sarei diversa, oggi, se mio padre non avesse preso quella decisione cruciale.
Nasciamo già con un carattere e delle predisposizioni particolari o siamo come fogli bianchi, in seguito macchiati dall’inchiostro delle esperienze?
Siamo flessibili come pasta modellabile, argilla morbida?
O esiste qualcosa in noi, un punto fisso, una roccia che né il tempo né la vita potranno mai scalfire?
Quanto è decisiva l’influenza dell’ambiente in cui cresciamo sul nostro carattere?
Solo una cosa è certa: sarebbe stato più facile comprendere chi sono.
Non mi sarei dovuta sentire divisa fra due mondi, tra due storie. Rigettata da una, dimenticata dall’altra.
Forse non avrei mai capito che cos’è il razzismo, cosa significa essere bambina e nera.
Non avrei dovuto dimostrare nulla a nessuno?
Forse non avrei mai sentito quel dolore lancinante che può comprendere solo chi vive lontano dal proprio Paese… quel senso di instabilità totale.
Eterno naufrago.
L’isola in cui sei approdato non sarà mai casa tua; prima o poi, il mare inghiottirà anche quel lembo di terra in cui trovi riposo.
Dovrai ripartire. Cercare altrove la terra ferma.
Forse non avrei avuto bisogno di nascondere, dietro un sorriso, il dolore di quando la mia famiglia in Senegal mi faceva notare che il mio wolof non era chiaro, che il mio accento era estraneo.
Una cosa lontana, una voce esotica, oggetto di scherno e derisione.
Né avrei dovuto nascondere il disappunto nei miei occhi quando i miei concittadini italiani si stupivano del fatto che parlassi perfettamente l’italiano.
Una cosa troppo ovvia, per me: la ragazza che sognava un giorno di diventare una scrittrice italiana.
Non sono stata l’unica a soffrire per quella decisione.
Mia madre mi parlava spesso del cielo in Senegal. Quel cielo, celeste intenso, che non conosce mai il brutto tempo.
E, a volte, mio padre mi descriveva la sabbia bianca che ricopriva le strade.
Non è mai facile ricominciare da capo.
Non si potrà mai dimenticare la propria casa, e il desiderio di tornarci continua a vivere in noi.
Non importa se casa è il posto in cui abbiamo più sofferto: a causa della guerra, della fame o dell’assenza di libertà.
Solo adesso che sono diventata adulta, che ho trovato un'isola sicura, ho smesso di avercela con loro, che mi avevano allontanata dalla mia terra natale.
Se penso al motivo per cui mio padre ha preso quella decisione, sono fiera di lui.
Ha rinunciato al suo posto fisso, alla sua casa, alla sua terra, per non toccare i soldi del suo popolo.
Era impossibile fermare la corruzione: aveva davanti a sé due scelte — far parte del sistema, diventando sempre più ricco mentre là fuori c’erano famiglie sempre più misere, oppure dimettersi.
Grazie alla sua decisione, non solo ho avuto la possibilità di crescere con una mentalità aperta, con due occhi che non vedono il colore delle persone ma solo i loro pensieri,
ma ho potuto crescere anche in umiltà e in gratitudine.
Adesso, l’amore che provo per la lingua italiana e per il wolof è incommensurabile.
È casa ovunque si trovi un italiano o un senegalese.
Non riesco mai a trattenere le lacrime, in autobus o in un ristorante, quando sento delle voci che parlano le lingue del mio cuore.
Non è facile crescere all’estero. Le difficoltà sono tante.
Perfino gli studi sociologici evidenziano quanto sia facile, per un bambino straniero, soffrire di crisi d’identità.
Incontrerai tante persone che preferiscono appoggiarsi agli stereotipi e ai luoghi comuni.
Ma, nel momento in cui trovi le persone giuste, il viaggio diventa un mezzo di arricchimento culturale incredibile, che ti forma e ti cambia per sempre.
Il cibo, i luoghi, la storia, le parole dell'Italia mi sono preziosi, così come mi è preziosa la storia del Senegal.
Credo che questo sentimento lo possa comprendere solo chi, dopo essere cresciuto con dei parenti adottivi, incontra per la prima volta la sua famiglia biologica.
Un misto tra sollievo e felicità.
Sei arrivata subito a Siena?
Non ho mai abitato a Siena. Sono cresciuta a Rapolano Terme, dove ho frequentato le elementari e le medie.
A quattordici anni ho deciso di voler studiare Scienze Umane, opzione Economico-Sociale.
Ero molto attratta dalle materie umanistiche e studiare psicologia era il sogno di una vita.
Questo particolare indirizzo era disponibile solo a Siena e ad Arezzo; per motivi di trasporto, scelsi Siena.
Hai accennato alle tante difficoltà di crescere all’estero. Quali difficoltà hai incontrato, sia nel paese in cui sei cresciuta che nelle scuole che hai frequentato?
La principale difficoltà che ho incontrato è stata l’ignoranza.
Un’ignoranza che molto spesso sfocia nel razzismo, dovuta principalmente a due fattori: la disinformazione, amplificata dall’immagine errata che i mezzi di comunicazione tradizionali come la televisione tendono a fornire, e un programma scolastico basato su un’educazione di tipo eurocentrico.
Io, ragazza nera cresciuta in Italia e appassionata di storia, ho scoperto a 19 anni che mio nonno senegalese aveva partecipato alla Seconda Guerra Mondiale.
Mio nonno ha perso un dito durante quella guerra.
A 19 anni ho scoperto che i soldati neri venivano messi in prima fila per servire da scudo agli altri durante le battaglie.
Attraverso mio nonno mi sono sentita parte di un momento storico importante, che fino ad allora avevo studiato con passione ma anche con una sensazione di estraneità.
A 21 anni ho scoperto Cheikh Anta Diop (1923–1986): sStorico, antropologo, fisico e politico senegalese, ampiamente riconosciuto per il suo lavoro sulle antiche civiltà africane e il loro contributo alla storia del mondo.
Uno dei suoi contributi più importanti è stato l’uso della datazione al carbonio-14 per determinare l’età dei reperti archeologici.
Diop è stato un pioniere nell’impiego di questa tecnica per supportare le sue teorie sull’antichità e l’origine delle civiltà africane, in particolare dell’antico Egitto.
In un’epoca in cui i contributi africani alla civiltà mondiale erano in gran parte ignorati o minimizzati, Diop usò metodi scientifici per dimostrare che gli egiziani erano neri africani e che la loro civiltà risaliva a molto prima di quella greca o romana.
Attraverso la datazione al carbonio-14 dimostrò che alcuni manufatti e strutture egiziane avevano origini molto più antiche di quanto affermassero la maggior parte degli storici occidentali.
Questi studi hanno contribuito a una rivalutazione della storia e sono stati fondamentali per lo sviluppo degli studi africani, ispirando molti studiosi a riconsiderare la storia africana sotto una nuova luce.
L’utilizzo della datazione al carbonio-14 rimane un esempio fondamentale di come le tecniche scientifiche possano illuminare e rivedere la nostra comprensione della storia.
Le persone nere hanno contribuito in modo significativo allo sviluppo scientifico, economico e artistico della storia umana.
Molto spesso, però, le persone nere vengono percepite come prive di storia, quasi come animali che hanno raggiunto la civiltà grazie all’aiuto dell’Occidente.
Raramente si riflette sul fatto che, prima dello schiavismo, l’Africa subsahariana aveva una propria storia, con correnti filosofiche e artistiche autonome.
O che il concetto di modernità è relativo e varia a seconda del contesto in cui ci si trova.
Trovo molto triste che un programma scolastico, che dovrebbe ampliare gli orizzonti e cancellare ogni forma di ignoranza, tenda invece molto spesso a ottenere l’effetto contrario: rafforzare stereotipi e misconcezioni.
È molto triste soprattutto perché hai frequentato un Liceo delle Scienze Umane, ossia l’indirizzo che maggiormente dovrebbe aprire alla comprensione della diversità culturale. In che modo hai formato la tua identità negli anni del Liceo? Quali sono stati gli stimoli – ad esempio i libri – più importanti?
Se devo essere onesta, sto ancora crescendo, sto ancora formando la mia identità.
Sono il genitore di me stessa e insegno alla “piccola me” tutto quello che non le è mai stato insegnato a scuola e a casa.
Gli anni del liceo sono stati i più difficili della mia vita.
Ho dovuto affrontare tantissime battaglie in silenzio, anche se, quasi per ironia, quei cinque anni e, in generale, i tredici anni trascorsi tra elementari, medie e liceo mi hanno fatto capire chi non voglio essere.
La mia identità si è formata grazie all’Islam. Nel Corano ho trovato molte delle risposte alle domande che mi avevano tormentato per anni.
I miei modelli di ispirazione sono i sahaba del Profeta Muhammad e le donne dell’Islam.
Ho letto altri libri interessanti, come Jazboul Mouride di Mame Cheikh Ibrahima Fall.
Non mi sono mai sentita a casa nel pensiero occidentale, pur condividendone alcuni principi, e non mi sono mai sentita a mio agio nella cultura africana, pur essendone affascinata.
Non mi riconosco nei termini “ragazza nera”.
Finalmente riesco a capire quell’articolo che, anni fa, avevamo letto in classe durante la lezione di diritto, dove un ragazzo senegalese diceva di non essere senegalese, ma italiano.
Prima non capivo perché insistesse tanto nel dire che era italiano.
Adesso capisco quanto sia difficile nascere e crescere in un paese diverso da quello d’origine e poi trovarsi, nel mezzo, tra due mondi che non desiderano veramente accoglierti.
È un dolore lacerante non riconoscersi da nessuna parte, non sentirsi a casa in nessun luogo e dover lottare per avere ciò con cui gli altri nascono: il senso di appartenenza a un popolo.
È difficile costruire la propria identità quando non si ha un percorso di vita ordinario, ma il punto di partenza è ricordarsi costantemente che sei un essere umano e poi capire, accettare e rivendicare di essere cittadina del posto in cui nasci e cresci.
Cittadina della lingua in cui parli e pensi, pur provenendo da genitori stranieri.
Quindi, chi sono io?
Sono una ragazza italiana con origini senegalesi, una donna, e tante altre cose.
Il colore della pelle è l’ultimo gradino della mia identità e il più insignificante.
Come un bianco non è solo un bianco, ma prima di tutto un italiano o un francese, un uomo, un artista, un professore e infine una persona bianca.
Mi piacerebbe sollevare una questione razziale che riguarda la generazione delle persone “nere” cresciute dopo il colonialismo.
Abbiamo avuto il bisogno di riaffermarci, ma penso che sia stato fatto nel modo sbagliato: i tratti fisici di un popolo ne sono diventati la cultura, portando di conseguenza all’alienazione.
Mi sono resa conto che la parola “nera” usata per descrivere alcune persone è un genocidio morale.
Si cerca di cancellare diverse culture, diversi pensieri, diverse storie e modi di essere, classificando una parte della popolazione umana in un’unica denominazione.
E noi, “neri”, non ci siamo opposti nel migliore dei modi a questo secondo tentativo di cancellarci; al contrario, l’abbiamo accolto come nostra fierezza per non sentirci più inferiori.
Per concludere, i libri che si studiano durante gli anni scolastici, o quelli che ho letto nel tempo libero, non mi hanno aiutata a formarmi, poiché riflettono ideali e punti di vista che non sono stati concepiti per persone come me.
Soprattutto in Italia è difficile trovare libri scritti da autori africani.
Tuttavia, pur amando la letteratura africana, non mi appartiene; solo l’idea che oltre questo corpo, oltre la mia storia, le mie origini, ci sia uno spirito, mi appartiene.
Allora, chi sono io?
Prima di tutto una cittadina del mondo, e penso che le mie caratteristiche fisiche, le mie opinioni e la mia storia siano strumenti necessari all’interazione con gli altri e alla conseguente crescita.
Sura Al-Hujurat (49:13):
“O uomini, in verità vi abbiamo creati da un maschio e una femmina, e vi abbiamo fatti popoli e tribù affinché vi conosceste a vicenda.”
Immagina di parlare a dei docenti. Cosa chiederesti loro per evitare che altre persone vivano quello che hai vissuto tu? Cosa potrebbe e dovrebbe fare la scuola per evitare che uno studente figlio di genitori stranieri non si senta a casa?
Chiederei ai docenti di non fermarsi mai alle apparenze.
Di guardare oltre il nome, l’accento, il colore della pelle o il paese d’origine.
Chiederei alla scuola di riconoscere e valorizzare le identità miste come la mia, senza costringerci a scegliere tra cittadinanza e radici.
Vorrei che si creasse uno spazio in cui la diversità culturale non sia solo “tollerata”, ma accolta con curiosità e rispetto.
Vorrei che gli insegnanti fossero formati per comprendere davvero cosa significa crescere tra due culture, per poter ascoltare senza giudicare e intervenire quando ci sono pregiudizi, anche quelli nascosti.
Purtroppo, però, sono ancora pochi i professori che lo capiscono davvero.
Spesso gli episodi di razzismo più gravi non arrivano dai compagni, ma dagli insegnanti stessi – soprattutto alle elementari e alle medie, quando siamo più fragili e più esposti.
Molti studenti si vergognano o hanno paura di denunciarlo, proprio perché si tratta di figure adulte che dovrebbero proteggerli, non ferirli.
Così finiscono per tenersi tutto dentro, sentendosi sbagliati o fuori posto.
La scuola dovrebbe essere il primo luogo dove ogni studente si sente di appartenere, nonostante tutto.
Un luogo in cui possa portare tutta la sua identità, senza vergogna, senza doversi nascondere.
Come è avvenuta la scelta degli studi dopo il diploma?
Nonostante il fatto che abbia una predisposizione naturale per le scienze umane; il mio ambito di studio attuale è matematica e informatica.
Sono una ragazza a cui piace analizzare pensieri, scrivere, comprendere le persone e conoscere i segreti che celano le parole. Credo che queste caratteristiche mi abbiano spinto ad appassionarmi alla matematica in età adulta, una materia che richiede pazienza, precisione, attenzione ai dettagli e passione.
I vent’anni sono gli anni più belli della nostra vita, ma anche i più difficili.
Si è completamente liberi, e la libertà fa paura.
Ironia della sorte, a volte essere troppo liberi ci limita.
È difficile prendere decisioni che influenzeranno il resto della nostra vita e definiranno chi siamo.
Si è costretti a scegliere tra la propria zona di comfort o mettersi alla prova.
Io ho scelto di mettermi alla prova, optando di studiare una materia che pensavo di odiare.
Forse perché odio e amore sono due facce della stessa medaglia.
Credo che il profondo rifiuto che provavo per la matematica — nato da traumi infantili e da professori poco comprensivi — si sia trasformato, col tempo, in passione, senza che me ne rendessi conto.
Mi piace un detto senegalese che dice: “Quando Dio costruisce, sembra che distrugga tutto”. Ed è vero.
La motivazione che oggi mi ha spinto verso una facoltà scientifica nasce proprio da un incidente di percorso, accaduto in prima superiore.
Avevo voti alti in tutte le materie, tranne matematica.
Fui rimandata, e per paura di essere bocciata iniziai a studiare in modo ossessivo.
Passai l’esame con 8,50 e mi resi conto per la prima volta che forse non ero del tutto stupida.
Fu la prima volta che studiavo davvero matematica e, con sorpresa, scoprii un piacere inaspettato.
Una sensazione che non mi ha mai abbandonato negli anni successivi, anche se mi sono concentrata principalmente sulle materie umanistiche, convinta che avrei continuato in quella direzione all’università.
Ma quella sensazione che, volendo, sarei riuscita anche in matematica non mi ha mai lasciata.
Tuttavia, per studiare matematica serve una mente chiara, aperta e tranquilla.
E la mia, all’epoca, era troppo sommersa dai problemi per poter affrontare una materia del genere.
Cercavo di sopravvivere come potevo, trovando salvezza tra la filosofia di Camus e Jean-Paul Sartre.
Cercavo qualcuno che mi dicesse cosa fare, qualcuno che mi capisse, che mi amasse.
Trovavo sollievo nei versi de L’Albatros di Baudelaire.
Non c’era spazio per la matematica.
A vent’anni mi sono trasferita in Canada.
Nell’Islam si dice che, quando vuoi smettere di fare un peccato, devi allontanarti dal luogo che te lo provoca.
Penso che lo stesso principio si applichi anche al dolore.
Come potrei spiegare che casa mia è il posto in cui ho immensamente sofferto?
Così, partire verso un nuovo paese è stata una maniera per ricominciare da capo, riscrivere tutto, reinventarmi, ma soprattutto per darmi tempo di guarire e diventare la ragazza che sentivo di voler essere.
Finalmente me stessa: una ragazza curiosa, a cui piace sfidare i propri limiti, dimostrare a se stessa di essere capace.
Capace di arrivare alla luna, se lo vuole.
Una ragazza che non conosce la parola “impossibile” nel suo vocabolario.
Penso di dover ringraziare molti professori che ho avuto al liceo, che mi hanno sostenuto, che hanno visto il mio potenziale, che hanno creduto in me quando nessun altro lo faceva.
Professori eccellenti che, pur non insegnando materie scientifiche, mi hanno insegnato a sviluppare un ragionamento critico, a comprendere e interiorizzare le lezioni, e non solo a studiare a memoria.
Insomma, ho avuto professori che mi hanno fornito gli strumenti cognitivi per riuscire in qualsiasi cosa volessi dopo gli studi liceali.
Più dei mentori che semplici insegnanti.
Mi ritengo estremamente fortunata ad aver avuto questa possibilità.
Parlami della tua vita oggi in Canada.
Sono cresciuta in Italia, avvolta dai profumi del sugo fatto in casa e circondata dalle splendide colline verdi della Toscana.
Quando, quasi quattro anni fa, sono arrivata in Canada, ho capito subito di trovarmi in un mondo diverso, dove la quotidianità scorre a ritmi più frenetici e il non riuscire a esprimermi perfettamente nella lingua locale mi ha creato molti disagi.
Il francese canadese è molto diverso dal francese della Francia.
In più, lo shock culturale è stato forte e la distanza dalle mie amiche in Italia si faceva sentire soprattutto nei momenti di festa o di sconforto.
Ho sofferto di depressione per due anni e ricordo ancora il mio sguardo vuoto che si perdeva nel cielo nero delle cinque del pomeriggio.
La mia vita era diventata meccanica: lavorare di notte, lottare contro me stessa per restare sveglia durante le lezioni collegiali, dormire tutto il pomeriggio.
Mi sentivo profondamente triste; non immaginavo che l’inizio dei miei vent’anni potesse essere così difficile.
Ero venuta in Canada con un obiettivo chiaro: ottenere la mia indipendenza.
Per raggiungerla ho fatto molti sacrifici, lavorando in diversi ristoranti e affrontando pesanti turni notturni che hanno messo a dura prova il mio equilibrio psicofisico.
L’estate dura appena un mese, mentre l’inverno si protrae con giornate corte, temperature polari e strade ricoperte di neve per buona parte dell’anno.
Adattarsi a un inverno così rigido è stato forse l’aspetto più difficile di tutti.
Per mesi ho desiderato tornare indietro; mi mancava l’Italia, i pranzi domenicali in famiglia, i piatti unici mediterranei.
Spesso mi sono chiesta se avessi preso la decisione giusta: imparare una nuova lingua, affrontare un clima ostile e una vita più stressante, restare lontana dalle mie amiche.
Oggi, a distanza di quasi quattro anni, considero il Canada la mia seconda casa.
Questo Paese mi ha aiutata a crescere e a definire chi sono realmente.
Ho realizzato uno dei miei più grandi sogni: sposarmi in giovane età, fiduciosa di poter costruire un futuro migliore insieme a mio marito.
E adesso le cose sono diventate molto più facili, quindi posso affermare con certezza che ne è valsa la pena.