Lucia Furi
Lucia Furi, nata a San Giovanni Cerreto nel 1947. Intervistata insieme al marito Silvano Corsi dalla nipote Aurora Mini. Aprile 2024.
Mi chiamo Lucia Furi, sono nata a San Giovanni a Cerreto nel 1947, in una famiglia di contadini. La mia famiglia era formata dai miei genitori, una sorella, due fratelli, uno zio e una zia, abitavamo a Vitignano in una fattoria.
Ho frequentato le elementari a Catignano. Ho finito le elementari a Pianella, dopo essercisi trasferiti; la mia maestra era la moglie del dottore generico, che avevamo allora: faceva di tutto, dal dentista al ginecologo. Ha infatti fatto nascere mio fratello Marcello dentro casa nostra, come me e nostra sorella. Solo l’altro mio fratello Domenico è nato all’ospedale.
Ho finito il mio percorso di studi con la scuola elementare. Fortunata eh?!
A scuola scrivevamo con il calamaio e con la penna a inchiostro. Maschi e femmine non erano divisi e avevamo due maestre; facevamo matematica, italiano e religione. Andavamo tutte le domeniche alla messa e il lunedì seguente raccontavo sempre il vangelo. Ricordo che c’era una bambina invidiosa di me che diceva “eccola lei!” perché alzavo sempre la mano.
L’esame di quinta elementare non l’ho dato perché ero malata a letto col morbillo, quindi ho dovuto ripetere l’intero anno.
Dopo aver finito le scuole elementari sono andata a lavorare e mi è dispiaciuto molto: a scuola in confronto che a lavoro mi riposavo e mi divertivo. Lavoravo nei campi e in casa: a 8 anni rifacevo i letti di tutti, preparavo il pranzo e la cena per la mia famiglia che tornava dal lavoro nei campi; lavavo il bucato con la cenere dentro a una conca con acqua bollente, perché non c’era ancora il sapone. Poi andavo a lavarlo alla fonte e lo appendevo al filo per farlo asciugare. Una volta mi stavo dondolando sopra questo filo e si ruppe, così finii per terra.
Spesso andavo a raccogliere l’erba per i conigli che avevamo, oltre ai maiali, le mucche, i vitelli, le faraone, le galline e i gatti, che mangiavano le ossa di ciò che mangiavamo noi. A proposito, noi mangiavamo la carne che producevamo, oltre che a venderla. Vendevamo anche le pelli del coniglio al treccone, un rivenditore di verdure, frutta e carne.
Una domenica di dicembre, ogni anno, mangiavamo il maiale che avevamo allevato per tutto l’anno e facevamo la cosiddetta “Sporcellata”. Cucinavamo salsicce, salami, prosciutti, i fegatelli e i migliacci, fatti col sangue e cotti al fuoco.
Anche durante la trebbiatura facevamo grandi mangiate nell’aia insieme a tutte le altre famiglie del paese. A Pasqua cucinavamo sempre le schiacciate e i biscotti. Una volta un bambino mise un palo tra le gambe della sua mamma e la fece cadere insieme a tutti i dolci che stava portando.
Insieme ai miei amici però giocavo anche: andavamo a rubare le ciliegie e le pesche sugli alberi vicino casa, con cui talvolta facevamo merenda, dopo essere stato a fare la spesa. Per passare un po’ di tempo insieme andavamo a prendere l’acqua al pozzo del paese; anche se le brocche erano piene, le svuotavamo per avere una scusa per uscire di casa insieme.
Nei campi ho lavorato fino ai 18 anni, poi sono andata a lavorare a Siena come donna delle pulizie.
Nonno ha sempre fatto il signorino, non ha mai lavorato nei campi, ha fatto il tipografo da quando aveva 15 anni. Dopo aver lasciato la scuola a 11 anni ha fatto per poco tempo il calzolaio insieme a suo zio. Ha lavorato come tipografo per 38 anni; è andato in pensione senza neanche un giorno di assenza a 54 anni; sta costando tanto al Governo.
Lo conosco da sempre, viveva vicino a me e stiamo insieme da quando avevo la tua età. Stavamo sempre tutti insieme a raccontarci storie, anche paurose tanto che la notte non riuscivo a dormire.
Quando è arrivata la televisione, nel 1954 si è formato un circolo sotto la casa del guardiacaccia, dove la sera la guardavamo, giocavamo a carte, prima di tornare a casa a dormire. La televisione a casa nostra per la prima volta ce l’abbiamo avuta qualche anno dopo, nel 1959. Quando non la usavamo la coprivamo con una tendina per non farci andare la polvere del focolare.
Io e tuo nonno ci siamo sposati nel 1970 a Canonica, Cerreto, dal prete Don Modesto; a festeggiare poi, siamo andati a Brolio. Il vestito lo avevo comprato a Firenze. Il resto dei vestiti li cuciva la sorella di nonno, Lida, che aveva imparato da un sarto di Siena. Il pranzo del matrimonio l’avevano pagato i nostri genitori. Durante il viaggio di nozze siamo stati un giorno e una notte a Firenze e a Viareggio.
La casa dove ci siamo trasferiti insieme era in affitto, in via Lauro de Bosis a Siena e convivevamo con i genitori e la sorella di tuo nonno. L’anno dopo è nata tua mamma.
Riguardo alla guerra, non posso raccontarti niente perché ancora non ero nata. Nonno invece sì perché è nato nel 1941, anche se ricorda poco. Sua mamma raccontava che quando i soldati bombardavano, lui si nascondeva e appena terminavano tornava a giocare insieme agli altri bambini.
[Nonno: Mi ricordo che i soldati che morivano li sotterravano in un prato, lungo la strada a San Paolo. Quando gli americani vennero a riprenderli, erano completamente coperti da protezioni per evitare infezioni.]
Giocavamo con la terra, con i sassolini, con i giochi da tavola e quando diventavamo più grandi andavamo a ballare nella sala di Pianella con l’orchestra, insieme alle nostre mamme però. Prima che tuo nonno prendesse la macchina, ci andavamo con la Vespa, a volte ci salivamo pure in tre.
Alla tua età andavo al mare, ma in modo totalmente diverso da come immagini: andavo a fare le faccende nella casa di fronte alla spiaggia di una famiglia di amici. Gli preparavo l’ombrellone in spiaggia, cucinavo il cibo, sistemavo le camere, ma non potevo mai godermi il mare e prendere il sole rilassandomi.
Una volta, a 11 anni, sono andata anche in colonia per un mese, ma è stata una brutta esperienza; anche lì raccontavano le storie sui fantasmi e la notte mi spaventavo; mi era stato rubato l’accappatoio molto costoso che mia mamma mi aveva appena comprato.
Da adolescente ogni tanto mi acconciavo i capelli con i bigodini, ma per asciugarli dovevo accendere il fuoco o andare al sole perché non esisteva ancora il phon, arrivato negli anni sessanta. Usavo pochi trucchi, al massimo la cipria e un po’ di crema. L’unica volta che mi sono messa il rossetto nonno si è messo a ridere.
Riflettendoci la mia vita non è stata brutta; io e la mia famiglia siamo arrivati, dal non avere niente, ad avere tutto, ad apprezzare le piccole cose.